Da diverse settimane sta circolando nel web la notizia che il cardinal Javier Echevarria durante una riunione a Catania ha rilasciato una dichiarazione choc:

“Un sondaggio dice che il 90% degli handicappati sono figli di genitori che non sono arrivati puri al matrimonio”

Su Facebook, Google+ e Twitter migliaia di persone hanno duramente (e giustamente) condannato queste parole giudicandole offensive, crudeli ed indegne, soprattutto se a pronunciarle è un uomo di Chiesa. In pochi si sono accorti che l’affermazione risale al 9 aprile 1997.

Sarebbe interessante soffermarsi sui meccanismi che hanno trasformato una notizia vecchia 15 anni in un argomento di attualità o sull’uso strumentale della statistica (il cardinale non ha mai chiarito a quale fonte scientifica facesse riferimento), ma non è di questo che mi voglio occupare: ciò che mi ha colpito di più è il linguaggio utilizzato dai giornalisti e dalle persone sui social network.

Di che colore sono quelli di colore? 

Quando ci si riferisce a minoranze svantaggiate scadere nell’ipocrisia linguistica è molto facile: ciechi, sordi, neri, omosessuali diventano “non vedenti”, “non udenti”, “di colore” o complicate perifrasi tanto più lunghe quanto più ipocrite. 

Prendiamo, ad esempio, i ne*ri: di un tedesco, un americano, uno spagnolo, un canadese, uno svedese o un australiano non diciamo mai che si tratta di “bianchi”. Dei neri, invece, non ci premuriamo neppure di sapere da quale nazione provengano, come se l’Egitto, Cuba, il Brasile, lo Sri Lanka e il Niger siano nomi diversi della stessa Nazione. Però leggendo sopra la parola “negro” abbiamo probabilmente storto la bocca: che brutta parola! Non si dice ne*ro, si dice “di colore”.

L’ipocrisia è palese dal momento in cui, però, non diciamo mai che un giapponese è “di colore”.

Non riconoscere le differenze culturali tra un vietnamita e un cinese dicendo “ma sì, sono tutti uguali” è la base del pregiudizio e della discriminazione: se “i neri” sono tutti uguali, li si può odiare per quello che ha fatto “uno di loro”, poco importa che quello che mi ha rubato in casa fosse del Benin e quello che sto pestando sia di Trinidad. Tanto sono sempre “marocchini”, no?

Lo stesso discorso vale per gli omosessuali: se Antonio Cassano li chiama “froci” scoppia uno scandalo, mentre la stessa parola usata da Ennio Fantastichini diventa divertente (vedi il video).

È chiaro che i contesti sono differenti, ma ho portato questo esempio per fissare un punto fondamentale: le parole in sé non sono cattive, offensive, crudeli o irrispettose, proprio come il coltello non è “assassino”. È chi impugna le parole che può farlo con cattiveria, crudeltà o mancanza di rispetto. E questo vale anche per le espressioni “politically correct”.

Diversamente ipocriti

Da piccolo sono stato uno scout. Un giorno andammo in un istituto che ospitava disabili e tossicodipendenti e il capo ci radunò raccomandandoci di non utilizzare termini offensivi e di far molta attenzione al linguaggio. Appena entrammo assistemmo a questa scena: un ragazzo sulla sedia a rotelle inseguiva nel corridoio un altro in pigiama gridandogli:

“Vieni qui, brutto drogato, non pensare che solo perché sono storpio non posso prenderti”.
“No che non mi prendi, handicappato del c****!”.

Fu uno choc. Però in quei giorni imparai a non trattarli da handicappati o drogati. Mi capita spesso di sentire gente che utilizza sempre i termini “corretti” per indicare queste persone, ma poi con assoluta tranquillità afferma che “i neri hanno tutti un odore fastidioso” o “i gay non possono avere gli stessi diritti degli altri” senza sentire alcuna incongruenza.

Non esiste nessuna parola che possa permetterti di dare rispetto o stima ad un’altra persona se non hai dentro di te né rispetto né stima.

Ho detto che si tratta di ipocrisia perché quando diciamo a qualcuno “non vedente”, “tossicodipendente”, “non udente” sappiamo benissimo a cosa ci stiamo riferendo, un po’ come quando di un ragazzo obeso si dice che è “robusto” o “tondetto” e di una ragazza brutta che è “simpatica” o “un tipo”.

In cosa sono abili i diversamente abili?

In modo particolare, trovo irritante l’uso del “diversamente abile”. In un centro per ragazzi con Disturbi dell’apprendimento viene detto ai genitori che il bambino non è disabile ma ha “competenze diverse”. In un altro viene detto che il bambino con Sindrome di Down o con Sindrome di Williams è abile in modo diverso. Il che è molto confortante. Peccato, però, che sia falso.

Sia chiaro: non si può andare da un genitore e dirgli che il figlio è handicappato o disabile come se fosse niente. Si rischia di fare come i medici che entrano nella stanza e dicono al malato: “lei ha un tumore”. Ci sono parole, modi e tempi giusti da utilizzare.

Ma al malato di tumore non gli puoi dire che ha “un diverso stato di salute”. È malato. Ed è malato di tumore. Ha diritto di saperlo.

Allo stesso modo, i genitori di un bambino che ha un deficit hanno diritto di sapere se il figlio è dislessico, se ha un ritardo mentale, una sindrome genetica, un disturbo di personalità etc. E hanno diritto a capire esattamente cosa significa, senza questi giochetti linguistici ipocriti che servono solo per scrollarsi di dosso la difficoltà di dare una brutta notizia. Non è mai facile affrontare la sofferenza, ma non è alimentando l’illusione che si riedifica un edificio crollato.

I primi a non voler utilizzare termini chiari ed espliciti sono gli stessi familiari, pensando che se il male non si nomina mai magari magicamente sparisce. Un po’ come i maghi e le streghe di Harry Potter  con il nome di Lord Voldemort. Lo stigma sociale è molto potente, soprattutto verso chi ha una malattia mentale e gli stessi familiari di chi ha un handicap spesso presentano uno stigma interiorizzato, tant’è che passano mesi o addirittura anni prima che i genitori si decidano di ammettere che il figlio è sordo, ritardato o psicotico.

L’equalizzatore difettoso

Dire “diversamente abile” conferma implicitamente che lo standard in base al quale si misura il valore di una persona è l’abilità. Ma non è così. Non tutti siamo abili. C’è chi è poco abile nella matematica, chi è poco abile nei rapporti sociali, gente del tutto “handicappata” con il computer…. In genere chi è meno abile in un settore è più abile in un altro. Oggi infatti non si parla più di intelligenza al singolare ma di “intelligenze”. 

Proviamo ad immaginare le nostre abilità come le frequenze di un equalizzatore. In condizioni comuni ciascuno ha una diversa configurazione dei canali: c’è chi ha più alti i toni gravi e chi i toni acuti, ma in generale tutti si attestano intorno alla mediaI disabili hanno alcune frequenze gravemente danneggiate. Non si tratta, quindi, di “frequenze diverse” ma di non poter utilizzare affatto quelle frequenze o di poterle usare solo al minimo. Perché, quindi, distorcere la realtà dicendo che chi ha una disabilità è “abile in modo diverso”?

Quando sento colleghi o educatori che utilizzano queste espressioni “politcally correct” mi chiedo: Cosa direte ai genitori di un disabile grave ospedalizzato? Con quale coraggio gli direte che il figlio è “diversamente abile”? E per quale motivo dovrebbe essere meno rispettato e amato se si ammette che ha alcune abilità in meno rispetto alla media della popolazione?

Il modello MBSG

Oltre a sperare inconsciamente che utilizzando parole diverse la realtà magicamente verrà modificata e oltre a ricorrere a frasi consolatorie per non dover affrontare i propri pazienti o lo stigma sociale, il motivo per cui ricorriamo a queste espressioni è dovuto al fatto che utilizziamo come metro di giudizio il MBGS = maschio bianco giovane e sano (che è il corrispettivo del WASPWhite Anglo-Saxon Protestant).

Per mascherare questo pregiudizio razzista, sessista etnocentrico e giovanilista abbiamo bandito dalla nostra cultura alcune parole: dire “vecchio” è offensivo, per cui l’età adulta non esiste più e si passa dall’adolescenza alla morte (l’Italia è piana di “ragazzi” 50 anni). Si possono disprezzare i benzinai cingalesi purché venga utilizzato l’epiteto giusto. Gli omosessuali (o, come ha scritto qualcuno simpaticamente, i “diversamente eterosessuali”) vengono considerati uomini di serie B ma guai a fare una battuta scherzosa! I malati mentali o fisici vengono fuggiti come gli appestati, ma basta anteporre un “diversamente” e tutto si aggiusta. 

Non sto incitando alla caccia alle streghe: alcune espressioni sono formali, altre colloquiali e altre scherzose, ma tutte esprimono il concetto che chi non è MBGS vale solo se e in quanto si avvicina al modello MBGS: chi non è giovane vale se “sembra ancora giovane”, le donne valgono se “hanno le p****”, i gay sono accettabili solo se “non si vede”, gli stranieri valgono se si omologano e chi non è abile in qualcosa solo se è… diversamente abile. 


dr Christian Giordano

Psicologo Psicoterapeuta, mi occupo principalmente di terapia di Coppia e terapia Sessuale. Esperto in psicodiagnosi e grafologia. Appassionato di saggistica, neuroscienze e letteratura, in particolare filosofia, narrativa, fantascienza e fantasy. Linux user. → Scrivimi per info e consulenze private in studio e via Skype.