L’orientamento omosessuale è un problema da risolvere, una sventura da accettare, una condanna divina o una malattia psicologica da curare? Prendetevi 5 minuti e ragioniamo insieme sui criteri utilizzati in ambito psicopatologico per definire se l’omosessualità è una malattia mentale o no.

Mi capita frequentemente che a cena da amici, nell’intervallo di una conferenza o tramite il sito mi venga rivolta questa domanda:

“Dottore, sono omosessuale: mi dica, sono malato?”

Di solito la mia risposta è più o meno questa:

Non intendo darle inutili preoccupazioni o false speranze, per cui mi permetta di essere estremamente sincero con lei: non ne ho la più pallida idea.

A questo punto generalmente la persona si mette a ridere, ma il mio intento non è soltanto di ridimensionare il carico di timori che aleggia intorno al termine “omosessuale”: è che davvero non lo so.

Chi stabilisce se essere omosessuali è normale o patologico?

Ci sono due fazioni opposte e sono sicuro che potete tranquillamente immaginare i due estremi: da una parte c’è chi dice che le malattie non esistono e sono solo invenzioni sociali, dall’altra ci sono persone che passano la vita a catalogare, etichettare e cercare “il gene” di qualsiasi comportamento.
Inutile dire che, essendo estreme, entrambe le posizioni sono false.

Se si stabilisse per legge che “la schizofrenia non esiste”, le persone schizofreniche non smetterebbero di soffrire. Magari soffrirebbero di meno, perché non porterebbero più il peso della discriminazione e dei pregiudizi, ma continuerebbero a star male. Allo stesso modo, se cambiassimo nome ai depressi e li chiamassimo “diversamente felici” non per questo smetterebbero di patire.

La parola ha una potente capacità creatrice, ma la parola “cibo” non ha mai sfamato nessuno o, come dicevano i filosofi, “la parola cane non morde”.

Ma allora l’omosessualità è una malattia oppure no? A me non interessa la vostra risposta. Mi interessa molto di più sapere quali sono i criteri che utilizzate per arrivare a quella risposta. In altre parole, se doveste stabilire voi se il comportamento omosessuale è patologico oppure no, in base a cosa decidereste?

Il normogramma multidimensionale

Mi è sempre piaciuta l’idea del normogramma multidimensionale proposta dal prof. Massimo Biondi, uno strumento con cui valutare l’inclusione o l’esclusione di un certo comportamento tra le psicopatologie. I nove criteri da utilizzare sono:

  1. criterio Statistico
  2. criterio Biologico
  3. criterio Alterazioni del pensiero
  4. criterio Devianza dalla norma sociale
  5. criterio Antropologico-culturale
  6. criterio Funzionalità psicosociale e lavorativa
  7. criterio Sofferenza soggettiva e vissuto
  8. criterio Sviluppo psicoaffettivo
  9. criterio Etologico

Senza spiegarli uno ad uno, una cosa che emerge in modo evidente è che non si può valutare un comportamento complesso usando un unico criterio.

A titolo di esempio (ma, sottolineo, sono solo esempi: non ho nessuna intenzione di creare un “vademecum per aspiranti gay” o un trattato apologetico in difesa dell’omosessualità) prendiamo alcune delle più diffuse affermazioni dell’omosessualità come patologia e analizziamole con il nostro normogramma:

  • La maggior parte delle persone è eterosessuale, quindi l’omosessualità è anormale [criterio statistico e criterio della devianza dalla norma sociale]

Vero. Statisticamente le donne e gli uomini gay tra il 5% e il 20% della popolazione (dipende molto dai criteri usati nei censimenti). Tuttavia, anche superare i 100 anni, passare la vita con la persona amata essere mancini o avere i capelli rossi sono condizioni statisticamente rare.

  • È patologica perché persone dello stesso sesso non possono procreare [criterio biologico e criterio etologico]

Questa affermazione contiene un presupposto e due equivoci: il presupposto è che l’unione affettiva o sessuale debba avere come finalità la riproduzione. Questo è vero per le specie animali che si riproducono senza “fare l’amore”, come le lucertole o i gatti (l’istinto di accoppiamento si attiva in periodi prefissati, per il resto dell’anno si ignorano). Per l’uomo ed altri mammiferi la sessualità ha molti più finalità e significati.

Il primo equivoco è che gli omosessuali non possano riprodursi. Se ciò fosse vero sarebbe una patologia: sterilità o impotenza o altro, in base al motivo per il quale non riescono a riprodursi. In realtà se una donna omosessuale fa sesso con un maschio e un maschio omosessuale con una femmina le funzioni riproduttive funzionerebbero benissimo. Gran parte dei gay sceglie di non riprodursi. Anche i monaci buddhisti o e suore fanno altrettanto, ma non significa che non possono procreare.
L’altro equivoco riguarda il criterio etologico: il comportamento animale ci fa capire moltissimo il comportamento umano, ma, come diceva Gene Wilder in Frankenstein Junior:

Tenga presente che un verme, con pochissime eccezioni, non è un essere umano.

  • “la Bibbia dice che…”, “secondo il Rabbino Capo…”, “in una Sura del Corano…”, “San Tommaso e Freud affermavano…” [criterio antropologico-culturale e criterio dello sviluppo psicoaffettivo] 

Queste argomentazioni vengono usate sia da chi è a favore che chi è contrario, cercando ognuno di dimostrare che nell’antica Grecia o tra i Nativi Americani l’omosessualità era tollerata e che nella Bibbia è presente o, viceversa, che le tradizioni e i libri sacri la condannano.
Inutile dire che la psicologia non deve essere “favorevole” o “contraria” né ha il compito di giudicare, condannare o assolvere.

Il modo in cui va valutata una patologia dovrebbe (e in questo “dovrebbe” c’è un mondo…) prescindere dagli “Ipse dixit” e basarsi su dati di ricerca e osservazioni il più possibile culture free. Anche la ninfomania o la masturbazione un tempo venivano bollate come malattie mentali, ma il criterio del “s’è fatto sempre così” non è molto utile e neppure molto intelligente.

Ingredienti per creare una patologia mentale

I criteri dell’Alterazione del pensiero, della Funzionalità psicosociale e lavorativa e della Sofferenza soggettiva sono più tecnici, ma in realtà sono quelli che gli psichiatri e gli psicologi utilizzano per stabilire se un comportamento è patologico oppure no.
In parole semplici, dobbiamo chiederci:

L’omosessualità comporta un’alterazione delle capacità cognitive? impedisce alle persone di lavorare, di avere una vita sociale soddisfacente e produttiva e di godere della vita?  

Dalle ricerche sappiamo che chi è omosessuale non differisce in alcun modo da chi è eterosessuale quanto a quoziente intellettivo, capacità di attenzione, memoria, pensiero etc. Nessuna alterazione del pensiero, insomma. Dal punto di vista lavorativo e sociale si potrebbero citare diversi casi in cui il fatto di essere omosessuali ha determinato mobbing, licenziamento, conflitti sul lavoro e in famiglia etc. In realtà non è tanto il fatto che queste persone sono omosessuali che ha compromesso la funzionalità sociolavorativa quanto il fatto di aver reso noto che sono omosessuali. Infatti sono le stesse problematiche che si riscontrano con i neri. Con lo svantaggio che i neri non possono scegliere se fare coming out oppure no.

Omosessualità egodistonica

L’ultimo criterio è molto delicato: essere omosessuali provoca sofferenza psicologica? Le patologie comportano quasi tutte un carico di sofferenza personale ed in genere è quello il criterio che ci fa desiderare di modificare la nostra vita. Anche alcuni gay soffrono per il proprio orientamento sessuale. Questo criterio basta per stabilire che l’omosessualità è una patologia?

Per alcuni psichiatri sì, infatti utilizzano l’etichetta diagnostica di omosessualità egodistonica (F66: Psychological and behavioural disorders associated with sexual development and orientation). Egodistonica significa che la persona la vive con sofferenza, la rifiuta, non la sente parte di sé.
Usare questa etichetta, secondo me, è sbagliato. Innanzitutto perché – come ho spesso ripetuto – non si può stabilire la psicopatologia in base ad un solo criterio. Inoltre, il DSM parla di sessualità in generale, non di omosessualità, tant’è che lo stesso manuale precisa che “Sexual orientation by itself is not to be regarded as a disorder“. Se fosse un criterio valido ci sarebbero anche eterosessuali che vivono con sofferenza la propria sessualità – ma non ce ne sono.
Prima di usare la sofferenza come criterio, allora, ci si dovrebbe chiedere: da cosa è dovuta questa sofferenza?

In conclusione

«Dottore, sono omosessuale, sono malato?»

Non lo so. No, come ormai avrai capito non ho il dubbio che l’omosessualità sia una malattia. Avrei risposto la stessa cosa se mi avessi chiesto: “Ho gli occhi verdi, sono malato?” o “Sono di Brindisi, sono malato?” o “Sono ambidestro, sono malato?”.

Se non ti visito non posso saperlo. L’unica cosa che posso sapere da questa domanda è che sei preoccupato e che ci tieni al tuo benessere. Un po’ troppo poco per fare una psicodiagnosi.


dr Christian Giordano

Psicologo Psicoterapeuta, mi occupo principalmente di terapia di Coppia e terapia Sessuale. Esperto in psicodiagnosi e grafologia. Appassionato di saggistica, neuroscienze e letteratura, in particolare filosofia, narrativa, fantascienza e fantasy. Linux user. → Scrivimi per info e consulenze private in studio e via Skype.