Non bisogna giudicare un libro dalla copertina. Eppure moltissimi libri ci attraggono o scegliamo di non comprarli proprio in base alla copertina.

La riflessione di questo articolo è nata da una sentenza con cui la Corte di Giustizia Europea afferma che non è discriminazione vietare il velo islamico o la croce cristiana sul luogo di lavoro. Mi sono chiesto:

Ma è giusto che un datore di lavoro imponga ai dipendenti una regola sull’abbigliamento?

È necessario approfondire e superare i concetti di “decoro” e di “offesa”. Finché esisteranno questi concetti, esisteranno leggi che regoleranno il comportamento relativo ad essi. Leggi che saranno sempre arbitrarie perché non c’è un criterio oggettivo per stabilire cosa va considerato decoroso e cosa costituisca una offesa.

Che senso ha il decoro? E chi lo stabilisce?

Avere la faccia tatuata è decoroso? Una maestra vestita con giubbotto di pelle, jeans strappati, orecchini e piercing? Un pediatra pieno di tatuaggi sarebbero meno professionale? Uno psichiatra con il turbante e il cafettano? Un vigile urbano con i baffi viola? Una poliziotta con la faccia blu? Un presidente di regione con gli abiti tradizionali maori?

Un uomo con la minigonna è poco decoroso? Se indossa il kimono o il sari o il velo o le scarpe con i tacchi o una collana di perle? E se mette il rossetto, l’ombretto o lo smalto?*

Noi qui in Italia facciamo fatica a comprendere questo discorso perché siamo estremamente conservatori e provinciali. In Inghilterra o in Canada, ad esempio, molte delle cose che ho elencato sono una realtà quotidiana.

La regola della natura: se un comportamento non nuoce non viene impedito

La regola generale dovrebbe essere: se quel comportamento non nuoce non va impedito. È la stessa regola che segue la natura. Abbiamo organi vestigiali nel nostro corpo che non hanno alcuna utilità ma che l’evoluzione non ha eliminato semplicemente perché non danno alcun problema (l’organo vomeronasale, l’epooforon, i muscoli orripilatori, i tubercoli di Darwin, il coccige, l’appendice…).

Ma quale danno può arrecare un abbigliamento?

  • un danno materiale, ad esempio qualcosa che interferisce con la strumentazione, che può ferire me, il cliente o i colleghi, qualcosa che rischia di impigliarsi negli oggetti con i quali svolgo il mio mestiere.
  • un danno morale cioè una significativa sofferenza interiore e psicologica dovuta alla violazione di un diritto, «consiste nel cosiddetto patema d’animo, nella sofferenza interiore, il perturbamento psichico o il pregiudizio arrecato alla dignità o integrità morale quale massima espressione della personalità di ogni individuo» (fonte).

Che senso ha l’offesa? E chi la stabilisce?

Io credo che il principio soggettivo oggi sia eccessivo. Ad esempio, potrei dire che un dermatologo che veste con gonnellino hawaiano e il rossetto fucsia non mi piace e che quando lo vedo sento emozioni sgradevoli, mi sento ferito.

Quindi, siccome IO ho emozioni sgradevoli LUI deve vestirsi nel modo che piace a me.

È un po’ come la mamma che dice alla figlia: “Mettiti la maglia perché ho freddo”. È chiaro che in questo caso il problema è la tua suscettibilità, non l’abbigliamento dell’altra persona. Decenni fa le persone provavano disagio e fastidio per le prime donne medico, per i primi uomini infermieri, per le prime cantanti liriche o i primi insegnanti neri.

Ma se invece vedere certe cose “offende la mia sensibilità”? Questo dovrebbe essere considerato un danno, no?

No. Neppure questo. La sensibilità personale è personale. Non è lo stimolo che va modificato ma la tua reazione allo stimolo. Se a te provoca disgusto la vista di persone con handicap non significa che le persone con handicap devono essere rinchiuse in un bunker in modo che tu non provi quell’emozione sgradevole. E se vedere due ragazze che si baciano o un uomo con le calze a rete ti provoca angoscia o ribrezzo, non è il loro comportamento a dover essere censurato ma la tua intolleranza.

Libertà di esprimersi per tutti

Io sono per la libertà di espressione, sia del pensiero che del modo di essere. L’unico limite, come abbiamo detto, è che questo non nuoccia agli altri. Lo Stato già garantisce questa libertà.

La libertà di esprimere sé stessi esteticamente però va riconosciuta a tutti. Altrimenti si chiama discriminazione. Si parla di discriminazione quando viene attuata una «diversità di comportamento o di riconoscimento di diritti nei riguardi di determinati gruppi» (Treccani). Lo Stato non può dare un diritto a qualcuno e negarlo ad altri.

La libertà di esprimersi nell’abbigliamento e nell’estetica va riconosciuta a tutti, anche senza un libro sacro, altrimenti è discriminazione.

Se quindi riconosciamo che chi è islamico ha diritto a portare il chador se non contestiamo la maestra vestita da suora, il professore con la kippah, il preside con il saio, allora dobbiamo permettere a tutti di vestirsi in modo che possano esprimere sé stessi e comunicare ciò a cui tengono.

Eppure spesso questa libertà viene riconosciuta solo a chi appartiene a una religione.

Il Prodigioso Mostro di Spaghetti Volante

È questa discriminazione che ha voluto dimostrare Bobby Anderson quando ha fondato il Pastafarianesimo. Molti pastafariani si sono chiesti: perché sarebbe più decoroso vestire da rabbino o da monaco buddhista o con crocifissi e chador anziché vestirsi da pirata o con lo scolapasta in testa?

È discriminazione concedere un diritto solo in base alla religione. Lo Stato non può consentire libertà di espressione solo alle religioni che hanno un numero di adepti più elevato, non può discriminare solo in base al numero di like. Non siamo su TikTok.

Pastafariana con il copricapo religioso

Sul posto di lavoro dovrebbe essermi consentito di vestirmi color zafferano e con il codino Hare Krishna, oppure con la divisa militare alla John Frum*** o da maestro Jedi (esiste la religione Jedi, sì, e ha numerosi adepti ). O con una tunica etrusca. O da Elfo di Granburrone. Perché no?

Se un abbigliamento non provoca danni dovrebbe essere consentito. Perché l’aspetto non conta. O no?

Ma davvero l’aspetto non conta?

Io penso che dovremmo educare le nuove generazioni a non giudicare una persona dal suo aspetto.

Educarle significa insegnare ad avere un pensiero critico, ad approfondire, a non fermarsi all’apparenza, a distinguere tra forma e contenuto. Ma dire che la forma non conta niente è sbagliato. Perché l’essere umano ha adottato canoni estetici fin dall’antichità. Tutti noi investiamo moltissimo tempo ad avere una certa forma fisica, un certo taglio di capelli, un linguaggio elegante etc. Il contenuto non è pensabile senza una forma.

Dire che il contenuto può essere espresso con forme differenti è corretto, ma dire che le forme non contano nulla è sciocco. L’aspetto, come ho detto, è espressione di sé. Attraverso il modo in cui ti vesti trasmetti un messaggio perché il modo di apparire è un linguaggio.

Quando compri un capo di marca, con la scritta “D&G” o “Nike” in bella vista, non stai facendo una scelta neutrale. L’abito su misura, il fermacravatta d’oro, i jeans strappati o i risvoltini, la barba lunga o il cranio rasato… Sono tutte scelte che inviano un messaggio, che tu ne sia consapevole oppure no. Anche scegliere di non curarsi della forma è un messaggio chiaro.

Il messaggio che invii dipende solo in parte da te. Perché, proprio come ogni linguaggio, per essere compreso deve essere condiviso.

Un imprenditore investe moltissimo per creare il brand. Vuole trasmettere una immagine chiara ed efficace della sua azienda. Prendete ad esempio gli Apple Store. Domina il bianco, la luminosità, materiali come vetro, legno chiaro e alluminio. Musica rilassante. Con queste scelte l’azienda vuole trasmettere dei messaggi precisi. Un commesso vestito da skinhead che messaggio invierebbe? Sarebbe in linea con lo stesso messaggio che vuole dare la Apple?

Non la legge ma la cultura

“L’evoluzione sociale non serve al popolo se non è preceduta da un’evoluzione di pensiero”

(Franco Battiato – New Frontiers)

Torniamo quindi al datore di lavoro che chiede di togliere il velo o il crocifisso. Secondo me ha ragione la Corte di Giustizia Europea: il datore di lavoro può stabilire un preciso codice di abbigliamento. Così come ha diritto di stabilire ciò che devi fare, ciò che devi dire etc. Perché i messaggi che invii sul posto di lavoro non puoi deciderli tu arbitrariamente.

L’importante è che queste regole non violino la legge e che siano esplicitate in modo chiaro nel contratto. Così se non le condividi puoi scegliere un altro lavoro. Altrimenti siamo al paradosso del vegano che pretende di fare il macellaio o del pacifista che vuole fare il militare.

Qualcuno potrebbe obiettare: e se il datore di lavoro avesse pretese discriminatorie? Ad esempio non assumere persone asiatiche o persone divorziate o persone con orientamento omosessuale o persone che appartengono ad una certa religione?

Non può farlo. Perché sta violando un diritto sancito dalla Costituzione.

L’unico caso, che io sappia, in cui un dipendente viene discriminato in base alla sua religione è quello dell’Insegnante di Religione Cattolica, per il quale si viene discriminati in base al credo religioso, all’orientamento sessuale e alle scelte di vita. Ma questo è un discorso che non può essere esaurito in un paio di righe.

Smettila di giudicare e di sfottere le persone per l’aspetto

Se davvero desideriamo un cambiamento culturale dobbiamo partire dal basso, dalle nostre scelte quotidiane. Iniziamo a non imporre i nostri canoni estetici agli altri. Inizia a non criticare le persone in base al modo in cui sono vestite o a come si truccano.

Impara a riconoscere il valore delle persone al di là del modo in cui appaiono. In questo modo gli aspetti estetici rimarranno sempre un linguaggio, certo, ma non saranno la parte più importante del discorso.


* Non faccio esempi al femminile perché il maschilismo (maschio = positivo) fa sì che le donne possano indossare qualsiasi indumento o accessorio maschile.
** Sempre a causa del sessismo, le controversie sul vestiario riguardano quasi esclusivamente le donne.
*** Se non conosci le “religioni del cargo” ti consiglio di approfondire, è davvero una realtà interessante.


Dr Christian Giordano

Psicologo Psicoterapeuta, mi occupo principalmente di terapia di Coppia e terapia Sessuale. Esperto in psicodiagnosi e grafologia. Appassionato di saggistica, neuroscienze e letteratura, in particolare filosofia, narrativa, fantascienza e fantasy. Linux user. → Scrivimi per info e consulenze private in studio e via Skype.