Cultura dello slogan, autoreferenzialità e suggestionabilità emotiva tra paura del diverso e illusione dell’uguaglianza.
Umberto Eco parla di social e la stampa prevedibilmente titola solo sulla “legione di imbecilli”, cioè sulla frase ad effetto che crea polemica e fa cliccare mi piace, retweettare o, secondo uno dei vizi contemporanei più diffusi, commentare il titolo senza leggere l’articolo.
Un po’ come quel tizio che leggendo la copertina de Il Deserto dei Tartari esclamò: “Ma guarda questo stupido che ha scritto un libro sui denti cariati…”.
- Il messaggio centrale di Eco è che per contrastare un dato di fatto incontrovertibile, cioè che i social livellano premi nobel e ignoranti, madriteresedicalcutta e deliquenti tutti sullo stesso piano, oggi è necessario che:
- i giornalisti evitino la pesca a strascico nel web tirando su e servendo nello stesso piatto branzini, spigole, orate, scarponi e bottiglie di plastica. Non bastava l’imbarbarimento dei quotidiani, con errori grammaticali e ortografici e stile colloquiale da stadio. Negli ultimi anni i giornalisti di fatto costruiscono gli articoli copiando a piene mani da internet, e chissenefrega che il contenuto non è verificato o è palesemente falso.
- la scuola doti di strumenti critici gli alunni in modo che sappiano discernere tra notizie attendibili e false. «Il grande problema della scuola oggi è insegnare ai ragazzi come filtrare le informazioni di Internet. Anche i professori sono neofiti di fronte a questo strumento».
La nostra società è iconizzata nella triade Tweet – Like – Selfie. E cioè: cultura dello slogan, approccio emotivo e autorefernzialità.
- Un primo errore è la generalizzazione narcisista: non esiste chi è “più” rispetto a tutti e in tutto.
- Un altro è l’errore di attribuzione etica. Il giudizio etico può essere dato solo in base alle scelte. Per un bambino africano povero non è una scelta non avere istruzione. Resta il dato oggettivo che è ignorante, inutile trovare giri di parole ipocriti come “diversamente istruito”. Ma l’ignoranza non è una colpa in sé. E soprattutto non ci autorizza a calpestare la sua dignità e i suoi diritti, cosa che invece spesso viene fatta.
In termini psicologi si parla di personalità, di tratti e di Psicologia delle differenze individuali. Ognuno di noi è come un bouquet: in uno ci sono più gigli, in un altro più rose, in un altro neanche un giglio ma molte margherite. Ogni persona ha percentuali differenti di ogni caratteristica: statura, intelligenza, bellezza, affabilità, fascino etc. La composizione e la percentuale di queste caratteristiche fa l’individualità, cioè fa di ognuno di noi ciò che siamo.
La maggior parte della gente da una parte rifiuta la diversità perché ha paura di risultare “meno” nel confronto, coltivando l’illusione infantile che si possa essere “più” in tutti i campi e rispetto a tutti. Ma allo stesso tempo, proprio perché non esplicitano questo pensiero irrazionale e non lo elaborano, rimangono convinte che il loro modo di pensare e di vedere il mondo sia l’unico giusto e ammissibile.
In sintesi
Tutti hanno diritto di parola, ma non tutti la esercitano in modo costruttivo, intelligente e cooperativo. La società contemporanea, iconizzata nella triade Tweet – Selfie – Like, tende a livellare le individualità annullando le diversità ed appiattisce l’attività psichica in ipersemplificazione, autoreferenzialità e suggestionabilità emotiva.
Concordo con Eco: la scuola, i giornali e gli organismi statali dovrebbero contrastare l’imbarbarimento intellettuale e linguistico dotando i cittadini di strumenti critici per discernere i contenuti attendibili nel flusso di informazioni magmatico del web. Magari potrebbero iniziare insegnandogli il significato delle parole “imbarbarimento”, discernere”, “magmatico” e “iconizzata”.