Spessissimo si sente dire e si legge: “Vado a studio, ci vediamo a studio, le do appuntamento a studio”. È giusto o sbagliato? Scopriamolo.

Se volete andare dritti al sodo, la risposta si trova in fondo all’articolo. Però vi avverto: vi perdete dei video interessanti e tanti spunti di riflessione.

Premessa

È universalmente noto che non è in alcun modo possibile correggere un errore linguistico. Mai. Nel modo più assoluto.
I motivi sono sostanzialmente tre:

  • Il primo motivo è di carattere tecnico: il linguaggio è una realtà viva, ogni parola accumula col passare dei secoli centinaia di strati semantici, come gli anelli di una sequoia secolare. Proprio come tutte le leggi umane, anche quelle linguistiche si modificano con l’uso.
  • Il secondo è un motivo filosofico: la linguistica contemporanea si limita ad osservare l’uso e l’evoluzione del linguaggio. Ha abdicato al ruolo di guida. A qualsiasi domanda di carattere linguistico – fateci caso – troverete quasi sempre questa risposta: «Sarebbe A, ma poiché in molti dicono B, allora sono giuste entrambe». Questo atteggiamento aveva un senso nell’era pre-Facebook, ma non tiene conto della velocità di propagazione dei virus linguistici. Inoltre, da psicologo, non posso non notare che questa allergia al ruolo normativo è tipica delle dinamiche psicologiche contemporanee.
  • L’ultimo motivo è di tipo personologico: quelli che leggono articoli come questo amano la lingua italiana, generalmente hanno una buona cultura – spesso un’ottima cultura! – e non usano le parole in modo superficiale. Alcuni di essi hanno anche un buon orecchio per la musicalità del linguaggio. Sono cioè le persone meno propense al cambiamento e meno disposte ad ammettere un errore.

Se appartenete a questa categoria, leggete pure ma non sperate di cambiare idea. Anzi! Grazie a questo articolo scaverete nei recessi del web, consulterete Treccani, Crusca e il forum di Gigi97 fino a quando non troverete molti argomenti che corroboreranno la forma che avete sempre praticato (che è, naturalmente, quella corretta).

Lo scrittore e bibliofilo Manolo Trinci

Una spiegazione che non piacerà ai romani

Negli anni in cui frequentai la Scuola di specializzazione in psicoterapia a Roma, mi accorsi che tutti gli psicologi utilizzavano l’espressione “andare a studio”. Lo sentivo ripetere in tutte le variazioni possibili: “Oggi la paziente è venuta a studio”, “Ci vediamo a studio da me”, “Quando i vostri pazienti verranno a studio”.

Quella “a” mi suonava stranissima. Ma – mi dicevo – visto che la utilizzano tutti incessantemente, non è che sono io a sbagliare?

No. La forma corretta è “andare in studio” o “andare allo studio”. Ma allora da dove deriva questo uso massiccio della forma scorretta? Dal linguaggio colloquiale romano e di altre province del Centro Italia (le vecchie signore trasteverine ancora dicono “andare a mare” o “andare a fiume”).

“Un errore prettamente romano”: Marco Biffi dell’Accademia della Crusca spiega che si tratta di un costrutto dialettale romano

Il fatto è che noi romani siamo tanti. E agli albori abbiamo avuto (e in parte ancora abbiamo) il monopolio della RAI, della politica, del cinema, delle istituzioni ecclesiastiche e dei quotidiani.

Non è che fossero tutti romani, certo che no, ma poiché la Capitale era qui a Roma, la RAI era qui, Cinecittà era qui e il Vaticano era qui, erano obbligati a soggiornare spesso a Roma o addirittura a stabilircisi.
E si romanizzavano.
Per cui ancora oggi potete sentire cantanti emiliani, attori veneti, cuochi calabresi, soubrette piemontesi che usano espressioni come “daje” o “sticazzi” etc. Si sono romanizzati.

Con buona pace di Nicoletta Orsomando e del maestro Mariano, il romanismo si è imposto ed è dilagato in tutta la penisola.

Nella rubrica “Scioglilingua” sul Corriere della Sera, il linguista Giorgio De Rienzo scrive:

Ci troviamo (l’ho ripetuto più volte) di fronte a un modo di dire di uso regionale (tipicamente romano) che si è imposto con la tivù. È preferibile usare la preposizione articolata: “dallo studio”, “allo studio”.

Giorgio De Rienzo (fonte: Scioglilingua)

Il grande linguista Luca Serianni – per il quale confesso di avere un debole – sulla stessa questione ha precisato:

Si tratta di varianti tipicamente regionali, che altrove sarebbero notate e censurate (nel secondo esempio, è regionale anche l’uso di stare in luogo di essere: un tratto linguistico ben vivo da Roma in giù, che si ritrova nelle lingue romanze occidentali: cfr. spagn. e port. estar). A parte l’alternanza tra preposizione semplice e articolata, si può ricordare che l’italiano familiare di Roma, in accordo con altre parlate centromeridionali, ha la tendenza a sovraestendere l’uso di a rispetto a in: una tendenza ancora più accentuata una cinquantina d’anni fa.

Luca Serianni (fonte: Accademia della Crusca)

Ma allora perché si dice “vado a teatro” e “vado a casa”?

La lingua non è matematica, ma ha lo stesso delle regole. Intanto vanno distinti il moto a luogo dallo stato in luogo, dal moto a luogo circoscritto o apparente.

Grammatica di riferimento dell’italiano contemporaneo di Giuseppe Patota (Novara, Garzanti Linguistica, 2006, p. 283; grassetti originali) (fonte: Cruscate)

L’espressione “andare a teatro” è emblematica. Anche lì si tratta di un moto a luogo. (Curiosamente, non diciamo “andare a cinema“). Si tratta di una convenzione diffusa, si dovrebbe dire più correttamente andare al teatro. Ma c’è una spiegazione: andare a teatro è come andare a messa o a scuola o a lezione. Non rappresenta tanto un luogo quanto un atto.

Andare a letto o andare a tavola invece sono movimenti circoscritti.

Si dice correntemente (e correttamente) “sono andato a teatro” e “sono andato al cinema”, con una incoerenza determinata dall’uso. Una ragione forse c’è e dipende dal momento storico in cui l’espressione è nata: molto probabilmente all’inizio del secolo si andava nell’unica sala cinematografica di una città. Di qui l’uso dell’articolo. Di teatri ne esistevano di più. Di qui la caduta dell’articolo, che diventa invece necessario se si indica uno specifico teatro in cui si è andati: “Sono andato al teatro Manzoni”.

Giorgio De Rienzo sul Corriere della Sera

In conclusione: si dice vado a studio o vado in studio?

Se hai saltato tutti i paragrafi qui sopra con le riflessioni linguistiche e sei venuto dritto qui, per sapere senza tanti fronzoli come si deve dire e sbatterlo in faccia a chi lo dice male, la risposta brutale è:

si dice andare IN studio.

Proprio come quando vai in stanza, in ufficio, in stamperia, nella stalla, in sala da pranzo o in camera da letto.

Si può anche dire “andare allo studio“, che in effetti suona come quando dici che vai allo stadio.
Anche se per essere precisi andare allo indica più il gesto di andare verso lo stadio che nello stadio. La partita infatti si disputa nello stadio. Quando i rugbysti o i calciatori entrano nello stadio, non diresti mai che entrano “a stadio” o “allo stadio”. O forse lo diresti, non lo so. In ogni caso l’espressione corretta è nello stadio.

La Treccani non delude mai. Qualsiasi espressione voi cerchiate, vi dirà sempre che siccome in tanti fanno quell’errore, allora è ammesso farlo (fonte Treccani).

Ora che sai come si deve dire, puoi divulgare il verbo alle tue amiche e ai tuoi amici laziali. Anzi no, fai come me: risparmiati discussioni infinite e controproducenti e tieniti questo segreto per te.

Categorie: FRAMMENTI

dr Christian Giordano

Psicologo Psicoterapeuta, mi occupo principalmente di terapia di Coppia e terapia Sessuale. Esperto in psicodiagnosi e grafologia. Appassionato di saggistica, neuroscienze e letteratura, in particolare filosofia, narrativa, fantascienza e fantasy. Linux user. → Scrivimi per info e consulenze private in studio e via Skype.